Station To Station, quando Bowie mescolò krautrock e funk

L’algida ed elegante figura del Duca Bianco entra nell’immaginario collettivo con Station To Station, che fa da collegamento tra il Soul/Funk di Young Americans e l’affascinante sperimentazione elettronica che vedrà la luce nella celeberrima Trilogia Berlinese.

Il trasferimento negli USA per inseguire il sogno americano e cercare un cambiamento che fosse il più netto possibile dopo i fasti glam si era rivelato una giusta scelta per David Bowie, che aveva portato beneficio dal punto di vista dei risultati artistici, ma aveva anche aggravato la sua dipendenza dalle droghe.

La sua vita a metà degli anni 70 non era certo un manifesto di sobrietà: il disordine che imperava nel suo privato, con la cocaina come sua confidente più assidua nelle interminabili giornate di Los Angeles, lo aveva ridotto a vivere in uno stato di paranoia quasi insostenibile.

L’interesse per la Cabala e la fascinazione verso l’iconografia nazista condivano lo stato mentale di un uomo che si stava perdendo e che non si era ancora fatto ingoiare dal proprio delirio forse solo grazie al suo talento e a i suoi molteplici impegni lavorativi.

L’alieno che interpreta nel film  sembra non essere solo una finzione scenica. Ormai Bowie si sta scollando dalla realtà che lo circonda e necessita di staccarsi dall’ambiente americano, che gli sta succhiando via la vita. Dopo la registrazione dell’album deciderà di tornare in Europa, precisamente a Berlino, dove recupererà dagli eccessi e si tufferà in un’altra eccitante fase della sua carriera.

Station To Station è un disco in cui il Funk viene rivisto in chiave tenebrosa, quasi terrorizzante. Bowie riesce a coniugare, grazie al suo poliedrico talento, solide ritmiche a sperimentazioni sonore, creando qualcosa d’inedito e avvincente, in cui emerge anche il suo ormai etereo distacco dal resto del mondo.

station to station

Il treno in marcia che ci passa accanto nella title-track funge da apertura a questo viaggio musicale, trasportandoci in una canzone strutturata su più parti e molto simile per tanti versi a Blackstar, contenuta nel suo ultimo album.

Con lo sbuffo della locomotiva di Station To Station si parte lentamente, ma presto si raggiunge una sempre più sostenuta velocità grazie alla sferzante chitarra che emerge dalle rotaie.

Con Golden Years (primo singolo estratto e canzone proposta originariamente a Elvis Presley) si ritorna nei territori di Young Americans, con un pezzo incentrato sul Funk/Soul.

Viene poi il tempo di Word On A Wing, una sentita richiesta di aiuto del cantante in un momento di forte frustrazione psicologica e religiosa. In questa canzone traspare tutto il dramma che Bowie vive all’epoca ed è una delle canzoni più belle da lui composte.

TVC15 è il secondo singolo di Station To Station ed è un pezzo dal testo stralunato (che si rifá a un allucinato episodio di droga di Iggy Pop nella casa di Bowie) e dal ritmo che si solidifica sempre più nel corso della canzone. Il sostenuto funk di Stay accellera ancora il ritmo e ci trasporta verso l’ultima fermata prima di lasciare gli USA.

Con la struggente Wild Is The Wind (unica cover del disco e forse la più grande performance vocale di Bowie) si conclude un album in cui la fusione di generi dà vita a un’opera introspettiva e sofferta, avvincente e audace, che non risente del peso degli anni, ma che anzi, ascolto dopo ascolto, guadagna in bellezza.

Ma ora fermiamoci qui perché il treno sta ripartendo: la prossima destinazione è Berlino, in c’è una certa Trilogia in attesa di essere incisa.

10 commenti

    • È uno di quei dischi che sembrano all’inizio inaccessibili e poi ti conquistano poco a poco, fino a non riuscire più staccartene per la loro bellezza.

  1. Un disco di transizione ma pur sempre bellissimo, nonostante l’irritante (per me) TVC15, un brano che non ho mai amato. “L’alieno che interpreta nel film L’Uomo Che Cadde Sulla Terra sembra non essere solo una finzione scenica”. Anch’io la penso così, considerando che un altro fotogramma del film finirà sulla copertina dell’album successivo, “Low”. Pare proprio che, in quegli anni, Bowie si identificasse appieno con quella figura.

    • Infatti, Bowie riutilizzò la figura di Thomas Jerome Newton in Low, molto probabilmente per il motivo che indichi tu. A volte, evidentemente, la finzione scenica non è troppo distante dalla realtà e il Bowie di quel periodo ne è la prova.

      • Che poi è un film che non ho mai visto. Lo passano sempre a orari assurdi e, dopo una ventina di minuti, in entrambe le volte che ho provato a guardarlo sono stato vinto dal sonno. La cosa interessante, e qui torniamo a “Low”, è che Bowie avrebbe dovuto comporre la colonna sonora del film. Non fece in tempo, a quanto pare, e così tenne per sé il materiale che poi finì in “Low”. Il film, comunque, è una di quelle visioni che considero obbligatorie. Insomma, prima o poi lo vedrò. 🙂

      • Sembra che il regista del film fece carte false per coinvolgere nel progetto Bowie, che reputava il più adatto a interpretare l’alieno “alienato”. Il film è molto particolare e forse troppo frammentato nel racconto, ma, nel complesso, sicuramente godibile per la prospettiva diversa che offre allo spettatore.

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