L’artista californiano torna con Colors.
Rimandato più e più volte, alla fine Colors è stato finalmente pubblicato e mostra la solita sterzata di Beck, incapace d’incidere lo stesso album per due volte di seguito. L’artista ha caratterizzato tutta la sua carriera abbracciando generi e suoni tra i più diversi tra loro, passando dal country al noise, dal folk al funk, evitando sempre di dare troppi riferimenti al suo pubblico, comunque (quasi) sempre pronto ad abbracciare il nuovo percorso musicale del geniale cantore di Loser.
E quindi, come era facile aspettarsi, dopo l’acustico e meditativo Morning Phase (nato sulla falsariga di Sea Change), Colors sposta l’attenzione verso altri lidi, aumentando stavolta la velocità del ritmo decisamente sul ballabile: è il pop più divertente e solare a guidare la nuova voglia di musica di Beck, impegnato ancora una volta a reinventarsi e a consolidare la sua natura camaleontica.
Il quarantasettenne cantautore focalizza la sua attenzione soprattutto sugli impasti sonori brillanti e spiritosi (la princiana Seventh Heaven, Square One), in cui sintetizzatori e chitarre si incrociano di continuo (la title track, Up Alla Night) e creano gustosi scenari che rimandano al mai abbastanza celebrato Midnite Vultures (I’m So Free, Wow): Colors è un frullato di suoni e (appunto) colori che abbracciano tutta la gamma cromatica del pop, in cui il multiforme ingegno di Beck Hansen riproduce le sue fantasie musicali suonando praticamente ogni strumento da solo, dividendo la paternità del disco con Greg Kurstin (suo tastierista, prima di darsi alla produzione), già alle prese con Adele, Foo Fighters, Sia e Liam Gallagher.
Tra i brani che spiccano, sicuramente la beatlesiana Dear Life (che non sarebbe stata male nel White Album), l’irresistibile e bizzarra No Distractions, la delicata Fix Me e Dreams, cinicamente realizzata con la consapevolezza di costringere l’ascoltatore a farsi trascinare dal suo ritmo funky.
Ci sono voluti anni e ripensamenti, lunghi stop e continui rimaneggiamenti: ma Colors alla fine premia tanta attesa e lavoro, mostrando Beck ancora in grado di saltare da un genere all’altro e di amalgamare stili diversi che, all’apparenza, hanno ben poco in comune. D’altra parte, il biondino vent’anni fa era considerato il perfetto incrocio tra Prince e Bob Dylan e la sua maestria nel patchwork sembra ancora in grado di regalare piacevolissime sorprese.
Sembra interessante…
È un bel disco che ti entra subito dentro fin dal primo ascolto.
da suo grande fan, secondo me è il suo disco peggiore.
Dici? A me è piaciuto molto e da quello che ho letto in giro le recensioni sono molto positive un po’ ovunque.
Opinione personale naturalmente, però lo sento molto scarico negli ultimi anni. Mi sembra di percepire in lui la stessa sindrome degli ultimi Arcade Fire, ovvero un ampio richiamo alle classifiche rispetto ad un lavoro maturo. Ma ripeto, è solo una mia percezione 🙂
Che voglia inseguire le classifiche dopo anni di riscontri poco all’altezza è palese, ma l’album è ben fatto e secondo me è volutamente il lato b di morning phase: dopo un disco acustico, quello elettronico. Come si addice al personaggio😉
Ed ogni volta che si parla di Beck, io penso sempre alle bare che camminano…😂
😄
[…] Come e più del recente Colors di Beck ci troviamo all’interno di un contesto pop elaborato e stratificato di suoni: Masseduction sembra apparentemente un lavoro quasi di maniera e molto frammentario nella sua costruzione, tanto da farsi percepire come più album fusi insieme, ma il contesto musicale che si crea è adatto a rendere palese il senso di perdita di chi lo ha realizzato. […]