Un anno senza Prince

Sometimes It Snows In April…

Un anno senza Prince e sentirselo tutto. Se ripenso a quei momenti in cui ho ascoltato la notizia e lo shock che ne è seguito, ancora stento a crederci.

Non mi aspettavo la sua morte, come quasi tutti, del resto.

Eddie Vedder pochi giorni dopo la sua scomparsa disse che Prince era uno che ti saresti aspettato di vedere su un palco fino a oltre ottant’anni e che casomai sarebbe morto proprio lì sopra, in mezzo alle luci e alle urla dei suoi fans. Aggiungo io che magari  lo avrebbe fatto mentre era intento a reinventarsi per l’ennesima volta l’assolo di Purple Rain. Ecco, quella era la morte che tutti auspicavano per il folletto di Minneapolis, non la fine che poi gli è venuta in sorte.

Era sempre stato una delle rockstar più lontane dalle droghe di cui si fosse sentito, vegetariano convinto, assolutamente concentrato sul controllo di qualsiasi dettaglio lo riguardasse, a volte anche con punte antipatiche di eccesso: per questo una morte assurda come la sua lascia un sapore amaro e triste.

Le notizie pubblicate in questi giorni, con le centinaia di pillole di oppiacei che erano disseminate ovunque nella sua residenza, mostrano un uomo diverso da quello che negli anni era trapelato, molto più fragile e indifeso e per questo molto più umano di quanto non volesse apparire.

Prince soffriva da anni per i problemi alle anche, massacrate da migliaia di spaccate e tacchi alti, che alla lunga gli avevano presentato un conto salato. Si era piegato agli antidolorifici pur di continuare la sua perenne vita on the road, ma la dipendenza e l’assuefazione alla fine lo hanno costretto a morire soffocato nell’ascensore dove è stato ritrovato.

Prince viveva di musica, nutrendosi a ogni nota. Non era un lavoro. La musica lo attraversava come fosse un conduttore e da un’altra dimensione arrivava a noi, passando per quell’esile figura fino a sgorgare magicamente dalla sua chitarra, dai suoi riff, dalle spaccate, dal piano, da qualsiasi cosa toccasse sul palco. Per me lui è stato la Musica e mi ha accompagnato ovunque, in ogni mia scelta giusta o sbagliata che fosse, insegnandomi il sesso, l’amore, il divertimento, la poesia.

Peccato che sia finita così. Mi sarebbe piaciuto invecchiare con lui e continuare ad aspettare con trepidazione il suo ennesimo progetto, la sua nuova direzione musicale, la sua solita polemica inutile, un qualche nuovo attacco alle case discografiche, un nuovo funk che mi avrebbe piegato le ginocchia o un nuovo assolo che mi avrebbe stregato.

Non ci sarà niente di tutto questo, però mi restano i ricordi.

Come la prima volta che ascoltai qualcosa di suo con attenzione: Sexy MF, il suo video marpione, e l’epifania di un nuovo culto.

La ricerca di altro di suo. Poi di altro. Poi ancora, fino a non abbandonarlo più. Una carriera fatta di alti (tanti) e di bassi (troppi) segnata da un ego smisurato, eccessivo per quel metro e sessanta scarsino. E poi la sua fuga dai legami con le case discografiche, la rinuncia al nome, gli anni di oblio, il ritorno con una nuova consapevolezza, la conversione ai Testimoni di Geova, mai del tutto accettata da parte dei fans. I suoi capolavori (1999, Sign”O”The Times, Purple Rain, Parade, Lovesexy, Dirty Mind), i buoni album (Around The World In A Day, The Gold Experience, O-+>, Musicology) e le cadute di stile (Come, Graffiti Bridge).

Vederlo dal vivo è stata un’esperienza che mi ha arricchito davvero. Un fenomeno che teneva in pugno ogni sguardo, occhio, anima e che con un solo gesto riusciva a ribaltare i sentimenti di migliaia di persone.

Come disse un giorno la mia signora durante l’ascolto di una sua canzone, “Prince è l’artista più libero che abbia mai sentito”. O una cosa del genere. Che però è il più bel complimento che io abbia mai sentito su di lui.

Forse perché è quello più vero.

Che il tuo assolo sia per sempre.

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