Quando Bob Geldof ci faceva ballare al suono dell’indifferenza

The Great Song Of Indifference è uno dei brani più riusciti del cantante irlandese.

Nel luglio del 1990 Bob Geldof, dopo quattro anni di assenza dalle scene, pubblicava il suo secondo album The Vegetarians Of Love, nome che divenne poi quello della band di supporto dell’ex leader dei Boomtown Rats. Il disco, nonostante sia considerato un fiasco commerciale, è probabilmente il suo lavoro più riuscito senza la sua vecchia formazione.

Il rocker irlandese, dopo l’esperienza umanitaria con Band Aid nel 1984 e Live Aid nel 1985 (dove fu l’impresario dell’evento) e un impegno politico costante e spesso sopra le righe, realizza con The Vegetarians Of Love un album dall’evidente sapore celtico. Il successore dello sfortunato Deep In The Heart Of Nowhere (che ebbe difficoltà a entrare in classifica) è un disco in cui il folk irlandese la fa da padrone grazie ai violini e agli altri strumenti acustici (le chitarre elettriche sono usate con molta parsimonia) e in cui emerge la volontà di creare un’atmosfera intima e personale.

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Bob Geldof

In The Vegetarians Of Love lo spiccato influsso di Van Morrison (A Gospel Song, Thinking Voyager 2 Type Things) e Bob Dylan (A Rose At Night, The End Of The World) emerge in tutta la sua prepotenza e guida Geldof attraverso canzoni seducenti e che si concedono poco al pop rock. Le uniche eccezioni sono Love Or Something (brano in cui imperversa la chitarra di Dave Stewart) e la dolce quiete rassegnata di Walking Back To Happiness che sembra rubata al canzoniere di Mark Knopfler e addirittura si fa fatica a credere che alla voce non ci sia il leader dei Dire Straits.

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la copertina di the Vegetarians Of Love

Ma il brano che spicca e che diede maggiore rilevanza all’album fu The Great Song Of Indifference, canzone sardonica e attraente, ironica e apparentemente leggera, manifestamente “contro” e fiera di esserlo. La denuncia della superficialità umana, in un crescendo che parte dalle piccole cose fino ai grandi problemi politici e planetari, la rendono un gioiello che brilla ancora oggi e una delle canzoni di protesta più riuscite di sempre. L’esplosiva ballata folk costringe a farsi coinvolgere nel ballo e a lasciarsi trascinare dallo stralunato canto, i cui versi che sembrano approvare a chi vuole alleggerirsi la coscienza e scrollare le spalle, ma in realtà sono un attacco sprezzante verso coloro che fanno dell’indifferenza e del disimpegno una regola di vita.

E’ un vero peccato che l’ex leader dei Boomtown Rats non sia stato in grado di proporre qualcosa di simile negli anni successivi, non riuscendo più a plasmare testi e musica in un discorso organico come in The Vegetarians Of Love. La critica all’epoca non fu clemente con l’irlandese, mostrandosi severa nei giudizi sul disco che considerava buono, ma non abbastanza, non accettando del tutto il suo impegno sociale (veniva beffardamente chiamato Saint Bob). Probabilmente Geldof era un personaggio troppo scomodo per i disimpegnati anni 80, che lo applaudirono comunque quando si spese per un buona causa come quella dell’Etiopia con We Are The World, ma che alla fine lo consideravano troppo spigoloso e poco accomodante.

Ma in un periodo storico come quello che viviamo, in cui ogni giorno sembra aumentare il livello dell’insensibilità e del disinteresse verso il prossimo, il messaggio di una canzone come The Great Song Of Indifference resta attuale, continuando a farci ballare sopra il suo tappeto di amarezza.

“I don’t care if the Third World fries
It’s hotter there I’m not surprised
Baby I can watch whole nations die
And I don’t care at all”

12 commenti

    • Mi rapì quattordicenne quando Geldof si esibì al festivalbar con il vecchietto che ballava e poi negli anni ho imparato ad amarla per il suo dissacrante testo. Un grande brano che avrebbe meritato di più.

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