Un piccolo bilancio su questa annata che ci ha portato via tanti artisti.
Questo maledetto 2016 ci è costato molto in termini di artisti. Certo, sono esseri umani e come tutti noi un giorno o l’altro tolgono il disturbo, ma un annata così gonfia di lacrime e addii è stata davvero eccessiva.
Il 10 gennaio, pochi giorni dopo la pubblicazione del suo nuovo album Blackstar, David Bowie raggiungeva il Major Tom e si perdeva con lui nello spazio.
Il 21 aprile, con un sms, mio fratello mi domandava se Prince fosse morto. Sono a rimasto a fissare la notizia in rete per i successivi minuti, mentre il telefono squillava e io non ci credevo.
Il 7 novembre anche Leonard Cohen se ne va, e lo fa quasi in punta di piedi e nel pieno rispetto della sua storia, lasciando il mondo della musica più povero delle sue liriche.
E poi tanti altri: Keith Emerson, Sharon Jones, Maurice White, George Martin, Glenn Frey, Greg Lake, George Michael, che hanno reso ancora più assurda questa annata.
Ma la morte dei primi tre, per carriera, carisma e valore, lascia un vuoto enorme e incolmabile. Ognuno di loro, pur appartenendo a generi, culture, età ed estrazioni sociali differenti, è riuscito a elevarsi a livelli assoluti, e le loro morti hanno portato un grande vuoto nel panorama musicale attuale.
Quanti artisti oggi possono dirsi capaci come Bowie di reinventarsi praticamente a ogni album, ridisegnando con classe il genere abbracciato? Quanti possono essere riconosciuti in grado di scrivere canzoni immortali che, entrando in punta di piedi nelle nostre teste, non riescono più ad andarsene? E quanti, poi, riescono a condensare dentro poco più di un metro e mezzo talmente tanto talento che a stento si sarebbe contenuto in qualche chilometro?
Ogni volta che uno di questi grandi musicisti è mancato abbiamo ascoltato e letto commenti in cui si dichiarava che non ci sarebbero stati altri come loro, o che il vuoto che lasciano dietro di loro è incolmabile.
Oggi, in giro, ci sono tanti grandi artisti, ma, per un verso o per un altro, pochi, pochissimi, sono paragonabili a quelli delle generazioni precedenti. Certo, la musica è cambiata, così come il sistema che la distribuisce e la sorregge, ma la sua sempre maggiore liquidità e diffusione non ha portato, come si pensava qualche anno fa, una migliore esposizione e promozione di giovani artisti. Anzi, la sempre più imponente frattura tra chi compone e realizza dischi (o vorrebbe farlo), le case discografiche e gli utenti finali, ha reso sempre più dura l’emersione dei talenti, che oggi se vogliono un po’ di visibilità devono ridursi a partecipare a qualche talent show che li sfrutta e consuma in pochi mesi.
Certamente anni fa, quando ancora il mercato dei cd era vivo (o per lo meno respirava ancora), era più semplice per i discografici investire su di un giovane talento e vederlo crescere, mentre ora ogni errore può costare addirittura il fallimento di un etichetta. Per questo si punta sul costruirsi prima il personaggio e poi, se magari va bene, provare a liberare l’artista che abita dentro, grazie alla sinergia offerta dal mezzo televisivo, che rende tutto più immediato e lineare.
Certo, i ColdPlay sono grandi, così come i Muse o Adele, Kendrick Lamar o Franck Ocean, ma quando questi artisti mancheranno, la loro influenza, la loro importanza, sarà considerata così notevole come quella dei tre grandi che ci hanno lasciato in questo 2016?
Quella di David Bowie, in termini di seguito e di tenuta artistica (il suo Blackstar ha posto lo standard di paragone per quest’anno), è probabilmente la più dolorosa, anche perché, dopo un’assenza di 10 anni, era riuscito a tornare con dischi vitali e pieni di idee, nel pieno stile dell’artista, arrivando a immortalare la sua lotta impari con il cancro nel suo ultimo lavoro così intriso di sinistri presagi, .
Quell’elegante signore che rispondeva al nome di Leonard Cohen, sicuramente il più lontano dalle bizze e dallo stereotipo della rockstar, ha ricevuto una commozione unanime per la sua scomparsa. Lui, così capace di scrivere praticamente di tutto con leggerezza e poesia difficilmente rintracciabili in altri artisti, lascia un grande vuoto, soprattutto d’ispirazione, per i cantautori di tutto il mondo (De Andrè e De Gregori gli devono tanto).
E poi c’è His Royal Badness. Ancora non riesco a concepire come un uomo così ossessionato dal controllo di tutto quello che lo riguardava, dalla sua musica ai video, dalla sua immagine alla produzione dei suoi album, possa esser finito nella spirale della dipendenza senza rendersi conto a cosa andava incontro. O forse lo sapeva, ma credeva di essere più forte. Oppure niente di tutto questo, perché la morte, a volte, è un fatto banale, anche se ti chiami Prince.