Swordfishtrombones, il nuovo monumentale volto di Tom Waits

Swordfishtrombones è stato il disco che ha cambiato la percezione nei confronti di Tom Waits: se prima della pubblicazione del suo album più celebre la critica lo considerava poco più di un divertente crooner beone e il grande pubblico si limitava semplicemente a ignorarlo, quando nel 1983 pubblicò Swordfishtrombones in molti rimasero a bocca aperta.

Il cantastorie di un’America sbandata

I protagonisti delle canzoni di Tom Waits erano persone destinate a contemplare la propria vita di fronte al bancone del bar e costantemente ai margini della società: questa scelta narrativa lo aveva portato a ritagliarsi un certo credito come l’ideale cantastorie di un’America sbandata, di cui pochi parlavano e molti probabilmente si vergognavano.

Musicalmente, però, Waits veniva reputato incapace di rinnovarsi e andare oltre le atmosfere fumose e fortemente jazz con cui confezionava i suoi dischi e questo sembrava una zavorra troppo pesante da cui staccarsi per poter sperare di farsi largo nell’affollato universo pop statunitense.

Swordfishtrombones, il nuovo monumentale volto di Tom Waits

Le difficoltà a imporre la propria musica e a non farsi respingere con perdite dalle classifiche ogni volta che pubblicava un disco si erano rivelate ogni anno più stressanti: molte radio arrivavano a rifiutare la messa in onda dei suoi pezzi a causa della voce fin troppo roca e l’unica volta che Waits si era avvicinato ad avere una hit fu quando gli Eagles incisero la sua Old 55.

Tanta voglia di cambiare

Un primo accenno al cambiamento c’era già stato con Heartattack and Vine, che aveva mostrato la voglia di Waits di abbandonare la sua comfort-zone e ampliare la ricerca sonora, provando a vestire di una nuova struttura ancora più corrosiva i suoi brani.

Artefice di questo cambiamento fu l’ingresso nella sua vita di Kathleen Brennan, che introdusse il cantautore a nuovi stili musicali e ne limitò gli eccessi nella vita di tutti i giorni, facendolo allontanare dalle continue sbronze e dalle innumerevoli sigarette.

Swordfishtrombones, il nuovo monumentale volto di Tom Waits
Tom Waits e la sua Musa

La sua nuova compagna gli impose anche un nuovo regime di lavoro, meno improvvisato e anarchico e più redditizio nella scrittura musicale, che diede modo a Waits di portare a termine con successo anche la colonna sonora di Un sogno lungo un giorno.

La collaborazione con Francis Ford Coppola, oltre a introdurlo al mondo del cinema e a dargli l’occasione di ricevere una Nomination agli Oscar, gli fece accettare completamente l’idea che aprirsi a sperimentazioni e nuove suggestioni non fosse poi così sbagliato.

La voglia di cambiare si tradusse con l’allontanamento di gran parte dei suoi storici collaboratori, compreso il produttore Bones Howe: Waits voleva essere libero di muoversi senza nessun legame con il passato e di abbracciare il nuovo percorso tracciato assieme alla Brennan.

Swordfishtrombones

Dopo svariati album e quando era ormai difficile vedere Tom Waits lontano dal circuito di culto dove appariva ancorato a vita, nel 1982 nacque improvvisamente Swordfishtrombones, che però dovette aspettare per essere pubblicato.

Swordfishtrombones, il nuovo monumentale volto di Tom Waits

La Asylum, sua storica etichetta, si rifiutò di dare alle stampe un disco che dava le spalle in maniera vistosa al passato di Waits, sostenendo che Swordfishtrombones gli avrebbe sicuramente fatto perdere il favore dei suoi fan abituali e non gli avrebbe comunque assicurato la conquista di un nuovo pubblico.

Il cantautore, convinto della bontà dell’album, stracciò il contratto e si accasò con la Island: Swordfishtrombones uscì nel 1983 e diede modo finalmente al nuovo Tom Waits di mostrarsi al mondo, che non si fece pregare di accoglierlo a braccia aperte.

Il consueto immaginario del cantante, colmo di perdenti, sogni infranti e amori impossibili, veniva invaso da marimbe, banjo, cornamuse, corni e fisarmoniche, diventando più sofisticato: Waits si avventurava tra stridenti scricchiolii metallici e suoni esotici, che lacerava con i suoi consueti mugugni e rantoli.

Swordfishtrombones è una sorta di viaggio contorto, strambo e attorcigliato su cui si erge l’arrocchita voce di Tom Waits: canzoni come la cantilenante Underground, l’inquietante Shore Leave, la dissonante Dave The Butcher, il divertente delirio di Frank’s Wild Years e la percussiva 16 Shells From 30.6 si mescolano a brani più “tradizionali”, come la stupenda Johnsburg, Illinois, l’irresistibile Down Down Down e l’emozionante Soldier’s Things.

Con Swordfishtrombones Tom Waits si confermava non solo come uno dei maggiori e incisivi autori statunitensi, ma lo stravolgimento eccentrico e impensabile fino a quel momento lo condusse verso una nuova dimensione musicale: la matrice jazz e blues restava il sottofondo di questa sorta di colonna sonora priva di film, ma l’inserimento di strumenti inediti nel contesto sonoro creavano una sensazione straniante.

La completa rottura con il passato era compiuta e Waits si era aperto a nuove prospettive seducenti e intriganti: la tetra fuliggine che sembrava destinata a posarsi sulla sua carriera venne spazzata via con una manciata di canzoni che coniugavano antico e moderno, regalando un’esperienza musicale d’avanguardia.

Questo passo, così impensabile e inaspettato, gli permise di diventare uno degli artisti più influenti della storia del rock.: non male per uno che sembrava destinato a essere solo un cantautore di storie grottesche e sordide.

 

 

 

13 commenti

  1. Non è che prima non avesse fatto granché. Blue Valentine era un grande album. Ma forse dopo quel disco era stato “superato” in bravura da Ricky Lee Jones, che invece poi è stata molto discontinua.

    • Prima aveva collezionato molti album fumosi e pieni di sfumature jazz e blues, ma sostanzialmente ripetitivi e con pochi picchi: la svolta maturata prima con Heartattack and Vine e poi con Swordfishtrombones gli ha permesso non di svoltare, ma anche di diventare con gli anni un punto di riferimento per tanti cantautori.

      • Mi sa che è diventato un punto di riferimento soprattutto per sé stesso, perché dopo Rain Dogs ha iniziato a ripetersi.

      • Ma pure i muli di Mule Variations erano divertenti. Poi diciamo che il suo l’aveva già fatto. Starebbe ai “giovani” fare qualcosa di nuovo invece di rapparsi addosso.

      • Hai completamente ragione: spesso i giovani sembrano più vecchi di chi li ha preceduti e per questo stiamo ancora a parlare di album e artisti sulla cresta da quarant’anni. Quando mi capita di affrontare questi discorsi sul declino che ha imboccato la musica occidentale, vestita spesso di hip hip e rime alla “viva il parroco” ho sempre paura che esca fuori qualcuno e mi dica che sono vecchio e che sono legato a vecchi schemi ormai sorpassati. Nel dubbio “eppur si muove” e amen.

      • Quelli USA non li seguo molto, sono fermo a Common, ma quelli italiani ormai citano come fonte di ispirazione i cantautori, ce n’è uno che si fa chiamare The André, per cui dove sarebbe il nuovo?

      • The Andrè però è molto divertente e riprende i testi dei rapper italiani e li rifà con la voce del grande Faber. Per il resto trovo tutto abbastanza piatto e declinato a un mercato alla canna del gas e schiavo dei talent.

      • A me piace la musica, ma trovo che sia quantomeno curioso che quelli che stanno attenti ai testi, ai messaggi, per il rap e il trap sospendano questo criterio di giudizio, già dai tempi del gangsta-rap.

      • Non vorrei essere frainteso, volevo intendere la “musica” in generale e non quella del rap italiano e del trap, sempre che questa si possa considerare musica.

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